In Libia ci sono circa 30 strutture, tra comuni prigioni e centri di detenzione, destinati ai migranti che tentano la traversata dal paese d'origine per arrivare in Europa. Uomini e donne costretti a seguire rotte prestabilite e controllate da trafficanti e affaristi che sulla loro pelle si arricchiscono. L’indagine, condotta dalla Fondazione IntegrA/Azione che ha contattato direttamente i detenuti, dimostra in maniera drammatica che le prigioni libiche e le condizioni con cui vengono trattenuti a forza i rifugiati dell’Africa sub sahariana e del Corno d’Africa, sono inumane.
L'Italia, continua a seguire la linea della repressione verso i migranti. Lo fa direttamente (nel territorio nazionale) e , spostando il problema fuori dal Paese, indirettamente (in Libia). Succedeva con Gheddafi e succede oggi con il nuovo governo libico. La linea è simile a quella del precedente governo Berlusconi: non perdere il controllo nel nostro territorio per evitare sanzioni dall'Europa e accuse da parte della comunità internazionale. Se i migranti si arrestano nel paese Nord Africano, non firmatario della Convenzione di Ginevra del 1951, gli occhi delle associazioni e mass media restano in lontananza. Così, i richiedenti asilo, grazie alla forza Italo-libica, possono tranquillamente essere calpestati dei loro diritti.
È grave che l’Italia, con la firma dell’accordo dello scorso 3 aprile tra il Ministro Cancellieri con il Ministro dell’Interno Libico Fawzi Al Taher Abdulali, si renda complice di questa violazione dei diritti del rifugiato e della persona. Il testo dell’accordo ricalca in molti punti le vecchie intese, in particolare quella sui respingimenti in mare. "Sfruttamento, condizioni inumane, viaggi drammatici, detenzioni e deportazioni coatte che sono l’ossatura della cerniera libica all’immigrazione verso il nostro Paese. Un pezzo nascosto di quegli accordi firmati tra governi e istituzioni per frenare delle persone semplicemente costrette alla fuga da guerre, torture e morte, verso l’unico futuro possibile: l’Europa" scrive IntergA/Azione nel suo dossier.
“Mi hanno arrestato mentre camminavo in città a Benghazi – racconta Debesay, detenuto da
più di due mesi nel carcere di Ganfuda - cercavo una barca insieme ad altri ragazzi per tentare di
raggiungere l’Italia dove già è rifugiata mia madre. Qui in carcere siamo
veramente disperati, siamo frustrati, abbiamo provato a uscire in tutti i modi ma non ci siamo
riusciti, neanche pagando le guardie”. Le condizioni della detenzione sono disumane, con umiliazioni e vessazioni continue da parte dei
libici. “Nella cella di trenta metri quadri siamo accalcati più di 60, dormiamo per terra, non ci
sono reti ma solo materassi, sporchi o stuoini buttati sul pavimento. Ci danno da mangiare tre volte
al giorno, il più delle volte pane secco e acqua, per il resto si aspetta, un’attesa infinita. Se stai
male non ci sono medici e medicine: il tuo destino è l'abbandono e la morte”.
Samuel è un ragazzo di 23 anni che viene della periferia di Asmara. “Sono fuggito perché non
volevo fare la guerra, sono scappato in fretta e furia, senza poter neanche salutare la mia
famiglia”. Da cinque giorni è all'interno del carcere libico di Ganfuda “ci hanno preso durante il
lungo viaggio dal Sudan e dal deserto ci hanno portati qui in questa prigione. Tutte le donne e i
bambini che erano con noi – ci spiega Samuel – sono stati presi e trasferiti al centro della Croce
Rossa a Benghazi, da allora non ne sappiamo più nulla”. Le comunicazioni con l’esterno sono
difficili, anche per il nostro mediatore è stato molto complicato contattare i detenuti nelle carceri.
“In 60 abbiamo un solo telefono cellulare nascosto in cella, è l’unico contatto con la famiglia, i
connazionali, i trafficanti: l’unico contatto con il mondo. Io non sono riuscito ancora a sentire la
mia famiglia, non sanno nulla di me e io non so più nulla di loro”.
“Qui la vita è dura e faticosa – continua a raccontare Samuel – siamo sempre chiusi in cella,
possiamo uscire solo quando ci danno il pane. Siamo frustrati, siamo stanchi della prigione, ma
non c'è alcuna possibilità d’uscita, non c'è alcuna speranza”.
Le altre testimonianze nel Dossier
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