La mia patria parte dal mio cuore e arriva chissà dove, senza confini e senza barriere.Il mio corpo galleggia nel mondo e il mio respiro è uno zingaro che viaggia e si confonde con quello di un altro . Andrea Onori
...OSSERVATORIO SU ABUSI E VIOLAZIONI DEI DIRITTI UMANI IN ITALIA e non solo…
“Quelle fratture sul corpo di mio figlio, morto in carcere e ancora senza giustizia”
Intervista alla madre di Marcello Lonzi, morto nel penitenziario di Livorno nel 2003. Per il Tribunale fu morte naturale
Morire in prigione, un luogo che avrebbe l’obbligo di riabilitare un detenuto, e non conoscere mai la verità, è ingiusto per l’intera società. Le famiglie dei deceduti in carcere pretendono di andare a fondo con le indagini per arrivare a un vero processo che faccia luce sull’accaduto. Trascorrono mesi e anni a indagare in prima persona, senza l’aiuto di nessuno. Lo fanno, per dare prove più credibili e conferme alle verità su queste morti “insolite”.
Macchinazioni, tribunali e archiviazioni è la vita che deve sopportare un genitore, dopo la crudele morte di un figlio. “Vivo con 260 euro al mese di pensione di invalidità dimostrabili. Devo pagare tutte le spese processuali ma non riesco pur saltando alcuni pasti”. Sono le parole di Maria Ciuffi, la mamma di Marcello Lonzi, morto nel carcere di “Le sughere” di Livorno nel 2003. La donna, ha dovuto sopportate enormi spese per le indagini e continua tutt’ora a pagare, nonostante la sua povera pensione non gli permetta di vivere una vita serena.
Ci sono voluti tanti soldi “per gli avvocati. Ne ho cambiati tre. Non ricordo più quanti ne ho spesi. Posso dire che quel poco di oro che avevo, l’ho venduto. Per la sola riesumazione della salma di Marcello ci sono voluti tremila euro”. Secondo la donna fu importante la riesumazione: vennero fuori altri elementi che portavano al pestaggio e di cui “il medico legale, il dottor Bassi Luciani, non aveva mai scritto”.
Economicamente e psicologicamente è una vera e propria tragedia portare avanti queste battaglie. Nervi saldi e un robusto patrimonio economico è quello che ci vuole, sempre. Ma non tutti possono permetterselo. Nonostante tutto, con sacrifici e debiti insormontabili, si cerca di ottenere a una verità non superficiale. Ma dopo tante battaglie, Maria Ciuffi ad un processo non ci è mai arrivata. Si è vista rifilare ben due archiviazioni per morte naturale e infarto. “Tengo a dire – precisa Maria – che se avessi avuto i soldi non avrebbero archiviato”.
LA VICENDA DI MARCELLO LONZI
Marcello Lonzi è morto nel carcere “Le Sughere” di Livorno l’11 luglio del 2003 dove era detenuto per tentato furto. Il corpo di Marcello è stato trovato sul pavimento tra la porta della cella numero 21, sezione sesta, padiglione “D” e il corridoio. Tutto intorno c’era sangue.
Secondo gli inquirenti, la morte sarebbe avvenuta per arresto cardiaco. Maria Ciuffi è convinta che suo figlio sia stato vittima di un violento pestaggio. Dopo la morte del figlio, presenta una denuncia per omicidio contro ignoti. Per la signora Ciuffi, un ragazzo può morire per arresto cardiaco ma quello che non si spiega (e nessuno ha mai chiarito) è che Marcello aveva otto costole rotte, due denti spezzati, due buchi in testa (con una strana vernice di colore blu attaccata), mandibola, sterno e polso fratturati. “Penso che, guardando le foto anche il più sprovveduto, si renda conto che mio figlio è stato picchiato”afferma la Ciuffi.
Il 17 novembre 2003 La madre di Lonzi spedisce una lettera al Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, nella quale scrive: “…ho paura che prevalga la volontà di nascondere la verità…” La Ciuffi, spende tanti soldi per arrivare ad un processo. “Sono state fatte tre perizie e ogni volta veniva chiamato il mio medico legale che io dovevo pagare 500 euro per ogni viaggio” Spiega la mamma di Marcello che afferma: “anche i detenuti hanno parlato e poi ritrattato”. Uno in particolare “dopo pochi giorni è uscito per un permesso premio”.
Un altro fatto strano per la signora Ciuffi è che in carcere non c’era il medico ma gli infermieri. “Una in particolare, dopo essere stata interrogata dal pubblico ministero ha tentato il suicidio in carcere. Una volta uscita dall’ospedale, l’infermiera ha dato un’altra versione dei fatti, quella a cui credo, secondo cui mio figlio avrebbe avuto a che fare con un appuntato soprannominato “Tavernello” per il suo vizio di alzare il gomito anche in servizio”.
Maria attende adesso una risposta da Strasburgo. Si è appellata alla Corte Europea per i Diritti dell’Uomo, che ha la funzione di valutare sia ricorsi individuali che ricorsi da parte degli Stati, una volta esaurite le vie di ricorso interne.
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Nessun commento:
Posta un commento